Pantelleria, la perla nera del Mediterraneo

Senza categoria

Qualcuno ha definito Pantelleria come la cassa di risonanza delle proprie emozioni piu’ grande del mondo: se sei triste, ti butta a terra facendoti scivolare nello sconforto, se sei felice, ti innalza fino a toccare il cielo con un dito. Questo paesaggio naturale così rude e austero ha davvero questo potere, ma ha anche quello di ribaltare completamente le tue sensazioni. Da quest’isola ricevi soltanto, come una sorpresa, come un’epifania.

Pantelleria è la più grande tra le isole minori della Sicilia. Si tratta di un’isola di origine vulcanica nata dallo scontro tra due placche tettoniche, quella europea e quella africana; é situata nel cuore del canale di Sicilia, a sole 35 miglia nautiche dalla Tunisia ed è pertanto più vicina alla Penisola di Capo Bon rispetto alle coste siciliane. L’assenza di isole vicine o di grandi promontori influiscono sulla presenza costante di venti che nel tempo hanno modellato la flora di questo paradiso, seppur antropizzato. Ogni vegetazione quì non supera il mezzo metro di altezza, chiaramente rivolta verso un lato, quello di nord-ovest.

Il punto piu’ vicino alle coste Tunisine di Pantelleria

Al primo posto tra cosa fare e vedere a Pantelleria troviamo lo Specchio di Venere, un lago interno situato in un antico cratere vulcanico la cui altezza massima stimata è di circa 12 metri. Probabilmente potrà sembrare strano, ma le uniche spiagge dell’isola si trovano proprio qui (se escludiamo un lido attrezzato, lo “shurhuq”, creato su una pedana), in quanto la costa mediterranea è scoscesa, ricca di scogli e non offre dunque spiagge ma solo magnifiche vedute. Infatti, allo Specchio di Venere è possibile fare bagni e fanghi termali in vasche in cui fuoriesce acqua che raggiunge i 50 gradi. Inoltre il suo nome è dovuto a una leggenda dell’Antica Roma, secondo la quale la Dea Venere si specchiava nelle sue acque languide prima di incontrare Bacco.

Lago di Venere

Altro punto di interesse per una rilassante giornata al mare ma senza rinunciare alla comodità di avere acqua termale gratuita e usufruibile tranquillamente è il Porto di Gadir. Questa baia rappresenta un punto di interesse facillmente raggiungibile e opportunamente servita.

Lungo la frastagliata costa nord si trova un luogo decisamente particolare, ma anche molto frequentato dai turisti: il Laghetto delle Ondine; è uno dei pochi luoghi dove è possibile immergersi nell’acqua di mare. Si tratta dunque di un laghetto incastonato tra le rocce, con acqua continuamente ricambiata dalle impetuose onde del Mediterraneo che, con il maestrale, si riversano quì. Caratteristica è, di fianco, la caletta con la “scarpetta di Cenerentola”. Situata in località Punta Spadillo (dove poter visitare anche il famoso faro, sito di un museo) è facilmente raggiungibile in auto o in moto, ma munitevi di scarpette per accaparrarvi il vostro posto migliore sugli scogli!

Anche Pantelleria ha da far vedere il suo Arco dell’Elefante. Situato lungo la costa orientale, questa particolare formazione rocciosa di pietra lavica si dirama dalle scogliere fino al mare, creando un grande arco che richiama la proboscide di un pachiderma.

Arco dell’Elefante

Scendendo lungo il versante meridionale dell’isola, da non perdere è la Balata dei Turchi. Questa suggestiva insenatura è incorniciata da spettacolari scogliere che raggiungono i 300 metri d’altezza ed è composta da acque cristalline dai meravigliosi fondali. Il suo nome, così come la famosa Scala dei Turchi siciliana, è dovuto al fatto che in passato era utilizzato come scalo naturale dai pirati turchi. Qui, forse, troverete uno tra i migliori mari che abbiate mai visto. Il “blu cobalto” con cui i panteschi definiscono il colore della loro acqua marina, l’ho ritrovato soprattutto in questa baia.

L’economia di Pantelleria si basa soprattutto sull’agricoltura; la maggior parte degli abitanti sono dediti alla cura del proprio orto e delle proprie piante. Solo recentemente, con lo sviluppo del turismo e l’aumentare di servizi di ristorazione, i panteschi hanno spostato la loro attenzione anche sul pescato. Ecco perché è assolutamente consigliata un’escursione nell’entroterra. Tra cosa visitare vi imbatterete in numerosi Giardini Panteschi. Queste particolari costruzioni hanno origini molto antiche, e hanno la funzione di proteggere le piante e le coltivazioni dai forti venti che spirano su Pantelleria. Costruiti in pietra lavica, i giardini panteschi si presentano a pianta circolare e sono costruiti a secco. Hanno un diametro di cinque metri e al loro interno si deve coltivare una sola pianta di agrume. Il benessere di questa pianta e l’adorazione degli agrumi in genere ha origini molto antiche; con il commercio dei propri prodotti che avvenivano anche fino alla base delle Alpi, molti marinai avevano capito di poter contrarre facilmente lo scorbuto, curato con sola vitamina C. Avere nella propria casa una fonte di sostentamento come questa pianta era dunque indispensabile. Attualmente, secondo un recente censimento, se ne contano 421 tenuti in ottime condizioni.

Tra i più famosi, il Giardino Pantesco di Donnafugata, considerato il più spettacolare di tutta l’isola. Protetto dal FAI, viene utilizzato per conservare una pianta centenaria di arancio immersa in una piantagione centenaria di zibibbo, il vitigno da cui si ricava il famoso passito dell’isola.

Il nostro soggiorno lo abbiamo vissuto in un Dammuso. Queste pittoresche abitazioni pantesche sono costruite in pietra lavica e presentano un caratteristico tetto a cupola. Questa, a differenza dei trulli a cui noi pugliesi siamo abituati, è accessibile e fungeva da vano per accumulare acqua che veniva confluita in cisterne sottostanti. Le origini di questi edifici sono antichissime e oggi rappresentano un modo molto suggestivo in cui alloggiare durante una vacanza a Pantelleria e godere di albe e tramonti suggestivi in modo assolutamente privato e ristretto.

HOW TO GET AWAY WITH MURDER

Serie TV

Le regole del delitto perfetto: un thriller a sfondo giuridico nato dal produttore di Grey’s Anathomy Peter Nowalk e la sua ideatrice Shonda Rhimes e che ha visto, per l’occasione, invertire i ruoli dei due, raccogliendo numerosi consensi da parte del pubblico.

La serie racconta la vita professionale e privata dell’avvocato penalista Annalise Keating, divisa tra il lavoro in tribunale e l’insegnamento in una prestigiosa università di Philadelphia. Una donna forte e caparbia, messa in scena da una incredibile Viola Davis, capace di far suoi, nel suo ruolo, temi forti come l’omosessualità, la bisessualità, l’etica, la vendetta, l’amicizia, l’amore materno e la vendetta, raccontando l’essenza totale di quello che in realtà è l’essere umano e le sue mille sfaccettature.

I casi che affronta, sin dalla prima stagione e fino all’ultima puntata della sesta, si rivelano essere sempre legati al suo vissuto: per farlo, la regia si serve di numerosi flashforward, che si rivelano essere per il telespettatore un utile strumento per cimentarsi nel capire il susseguirsi della trama o semplicemente per cercare di ricordare i numerosi avvenimenti raccontati. Il primo omicidio, su cui si sviluppa l’intera vicenda, è quello di Sam Keating, marito di Annalise.

Sam, come molti altri, è un personaggio secondario. Ad onor del vero, però, non ho mai visto una serie tv in cui questi ruoli fossero raccontati in maniera così brillante, coerente e in linea con il percorso di ognuno di loro, tanto da essere completamente legati alla narrazione.

C’è poco da poter chiarire senza rischiare di spoilerare, pertanto mi limiterò a dire che con questa serie, Viola Davis ha ricevuto ben due candidature per il Grammy nel 2014 e nel 2015, che ho divorato la serie in sole due settimane e che crea dipendenza. Occorre sapere altro?

Scacco. Matto.

Serie Tv

Con questa mini serie televisiva di sole 7 puntate Netflix ha davvero fatto scacco matto, partendo con un cavallo di punta, una mossa sicura o quasi sempre fatale, una “difesa siciliana”, se volessimo citare una battuta spesso presente nel copione: prendere uno sceneggiatore come Scott Frank e abbinarlo a Allan Scott basandosi sull’omonimo libro di Walter Travis del 1983 dall’indiscusso successo. Adottare sapientemente una colonna sonora di Carlos Rafael Rivera che va in crescendo dalla prima all’ultima puntata. Come protagonista, scegliere una giovane attrice che possa attraversare il percorso di crescita e formazione di un enfant prodige, trovando in Anya Taylor-Joy il proprio cavallo vincente. Risultato: La Regina degli Scacchi si fa da romanzo a prodotto per la televisione divenendo in egual modo un ottimo strumento di intrattenimento e attrazione. Una schiera di tessere ben allineate, il colpo sicuro di chi ha alla base la solidità di pagine già di gran successo e trova un canale molto semplice con cui godersi gli applausi.

La Regina degli Scacchi

Siamo nell’America degli anni Sessanta. In un orfanotrofio in cui una bambina, l’orfana Beth, scopre e impara la bellezza del gioco degli scacchi solo guardando il custode mentre appassionato duella in solitaria, obbligandolo ad insegnarle ogni mossa possibile. La bambina vive gli scacchi appassionatamente e con dedizione, dedicando anche notti insonni e facendo diventare di una passione la sua ossessione, scoprendo anche l’inizio delle sue fragilità ma anche il punto di forza del suo essere donna in mondo prettamente maschile e misogino.

Seppur con tempi a tratti lenti, dettati unicamente dal gioco, la narrazione scorre in maniera fluida e lineare, non risultando mai piatta ma avvincente e coinvolgente. Forse, risiede proprio in questo l’unico elemento a discapito della storia: Beth, così fragile ed emotiva, con una corazza che pochi riescono a scalfire e la descrizione poco accurata dei personaggi che le si susseguono affianco, non permettono di familiarizzare e appassionarsi ad altri se non a lei. 

Beth Harmon

Traendo le somme, forte di una buona interpretazione della protagonista e del resto del cast, di una regia capace, di uno stile che non sfiora mai l’eccesso e che si mantiene poetico e motivazionale fino alla fine, La regina degli scacchi è un drama che si divora in un attimo, che commuove ma non troppo, che motiva e che fa venir voglia di giocare a scacchi anche senza conoscere le regole.

Isole Eolie: così selvagge, così differenti

Senza categoria

In un momento storico così delicato, in cui i viaggi oltre oceano o addirittura oltre il proprio confine linguistico sono sconsigliati, molti “travel-addicted” si sono ritrovati a dover fare i conti con l’ardua scelta di non partire o scegliere di soggiornare nella propria nazione. Purtroppo, chi scrive, ha dovuto “solo” scegliere in quale parte del belpaese trascorrere l’agognata settimana di ferie estive, sempre munito di moglie, mascherina e igienizzante mani.

Le vacanze in villaggio, mai. O almeno non per ora. Per questo la nostra scelta avrebbe dovuto avere un aspetto “wild”, ma con buona cucina e un ottimo mare (perché spostarsi dalla Puglia si, ma solo se ne possa valere davvero la pena). Presto detto: Bari – Reggio Calabria in auto, un’ora e mezza di aliscafo e benvenuti a Lipari, scelta da noi come snodo cruciale per i nostri spostamenti effettuati con piccole imbarcazioni.

Abbiamo deciso di dormire presso https://www.hotelbougainvillelipari.com/, un 4 stelle con una bellissima vista sul centro ma abbastanza lontano dalla movida per poter godere di qualche minuto di tranquillità e, soprattutto, per tornare in camera senza mascherine sul volto. L’hotel, oltre ad avere delle camere ben arredate e confortevoli e verandine private, ha una piscina con idromassaggio e un ampio giardino dove rilassarsi.

La vera scoperta di questo tour è pero stata l’agenzia che ha coordinato i nostri spostamenti marittimi e gastronomici: http://www.eolietour.com/

Per quest’anno infatti abbiamo deciso per la prima volta di affidarci completamente ad agenzie esterne senza la preoccupazione di dover ogni giorno pensare se sarebbe stato meglio addentare un arancino (o arancina, accontentiamo tutti i siciliani) o un bel cannolo. Ci siam detti che è bastato il lockdown per pensare a cosa impastare o mettere sui fornelli. E mai scelta fu più saggia. Il nostro tour prevedeva infatti ogni giorno una cena in un ristorante di Lipari, ognuno con una caratteristica e ciascuno con un diverso tipo di cucina. Ognuno, consigliatissimo. Nelle storie in evidenza sul mio profilo Instagram (https://www.instagram.com/ilbotanico/), qualche assaggio (si fa per dire) di quel che ormai è bello depositato sul basso ventre dell’autore.

Appena si arriva a Lipari colpisce la semplicità con cui scorre la quotidianità e la calma con cui affrontare l’afoso caldo siciliano. Lipari e il suo centro storico rigenerano, pullulano di attività ricreative e ludiche (a tal proposito è d’obbligo menzionare “Il Giardino di Lipari”, dove ascoltare della buona musica dal vivo e una seleziona molto raffinata di distillati) e offrono anche un belvedere a livello architettonico, con le sue viuzze che si intersecano e la Rocca del Castello a governare ed osservare l’intero lato orientale dell’isola, ma non solo. In questo punto è possibile osservare le fascinose sagome di Panarea, Vulcano e Salina.

Lipari offre anche molto altro, a partire da un assortimento di spiagge che abbiamo provato quasi per la totalità, ma tutte accomunate da un unico denominatore: la pietra pomice. Proveniente dalla spiaggia della “cava di pomice”, vi terrà compagnia durante le vostre nuotate o il vostro relax sulle battigie.

Non credo ci sia una parola ben precisa per descrivere esattamente le Isole Eolie. Ogni isola ha una caratteristica ben precisa che la rende unica e facilmente distinguibile dalle altre. Inutile dire che ogni caratteristica si permea alla soggettività del visitatore e ogni descrizione potrebbe essere altamente personale.

Vegetazione spontanea delle Isole Eolie

Vulcano, l’isola più vicina al capoluogo, è distante solo qualche minuto di navigazione da Lipari. Selvaggia e aspra, con un odore di zolfo pungente che cambia intensità in base alla direzione dei venti. Secondo la mitologia greca, Efesto, il dio del fuoco e armoraro degli dei, aveva quì la sua fucina. Qualcuno narra che sia proprio nel Monte Saraceno, dove sorge il cratere del vulcano da cui l’isola prende il nome. I vulcanari, gli abitanti dell’isola, godono dello spettacolo di questo monte alto 481 metri dalla cui sommità la vista è impagabile, osservando le altre sei isole. Si, occorrerà fare un po’ di sano trekking e una bella sudata, quindi armatevi di scarpe comode e tanta pazienza.

Menzione d’onore meritano le spiagge di Vulcano e le cale raggiungibili solo via mare: tra le prime, la spiaggia di sabbie nere e le “Fumarole di Vulcano”, a ridosso dell’area portuale; fare un bagno qui significa essere letteralmente coccolati da milioni di bolle che dal fondale marino emergono in superficie in seguito all’attività vulcanica nel sottosuolo. Per le seconde, assolutamente consigliata è la visita alla “piscina di Venere” e alla sua adiacente “grotta del cavallo”. Secondo la leggenda, Venere era solita tuffarsi in questa sua vasca naturale e privata per riacquisire la verginità perduta.

Piscina di Venere

Alicudi e la sua sorella gemella Filicudi, sono lontane dal turismo di massa. Filicudi conserva un fascino incontaminato, perfetta per chi ama fare trekking e snorkeling, con la visita al villaggio preistorico di Capo Graziano, già ben visibile all’arrivo in barca, e la discesa nel fondale cristallino della grotta del Bue Marino. Alicudi, l’isola più occidentale, la prima delle Eolie che si incontra arrivando da Ustica, è abitata da quasi duecento persone, di cui una ventina sono tedeschi che hanno fatto di quest’isola la loro casa dopo aver soggiornato quì, divenendo “Arcudari”. Gli abitanti, noti per la loro forza fisica, sono colossi gentili che col tempo hanno deciso di tralasciare pesca e agricoltura per dedicarsi quasi completamente al turismo che sempre più sta prendendo piede sull’isola. Questa è anche conosciuta col nome di “Ericusa”, per la presenza dell’Erica, che qui cresce spontaneamente sulle pendici del vulcano ormai spento. Si, di piante devo pur parlare, se siete sul blog de IlBotanico!

Panarea, la più piccola delle isole Eolie, forma con altri piccoli isolotti un vero e proprio arcipelago a sé stante. E’ la più piccola, come dicevamo, ma anche la più chic e modaiola. A Panarea non ci sono spiagge, ma solo un paesaggio marino da scoprire esclusivamente in barca. Abbiamo visitato quest’isola di giorno, apprezzandone la predominanza delle costruzioni bianche, e di sera, in cui notavamo la scarsa illuminazione pubblica e l’utilizzo di lampade gialle anzichè, come nelle grandi metropoli, bianche o a led. Abbiamo capito solo a fine serata, dopo un gin tonic al Raya, che questa è una caratteristica dell’isola: provate a pensare a “Panarea sotto le stelle” e non poter osservarle a causa di forte luce artificiale.

Stromboli è una delle mie isole preferite; racchiude il fascino selvaggio delle due gemelle citate prima, l’eleganza di Panarea, le spiagge nere di Vulcano e degli ottimi cannoli! Con “Iddu”, il vulcano attivo spesso brontolone, appena la barca attracca, hai l’impressione di essere arrivato su un’isola incontaminata. Le costruzioni bianche e l’enorme presenza di bouganvillee la fanno da padrona e ornano queste spiagge con ciottoli o arena completamente neri e bollenti come carboni. Ovviamente, assolutamente consigliata è l’attesa in mare aperto di qualche piccola eruzione dello Stromboli. La magia del tramonto, il cullar delle onde e l’arrivo della notte e del suo fascino renderanno questa giornata indimenticabile.

Salina è l’isola più “wild”, chiamata l’isola dell’oro verde per la presenza incommensurabile di piante di capperi, di “cucunci” e della Malvasia, il vino che, prodotto qui, assume un sapore acidulo ma al contempo dolce. Se ti trovi su quest’isola non puoi andar via senza aver fatto un bagno a Pollara, dove l’acqua assume colorazioni blu cobalto e verde smeraldo e dove Troisi decise di girare il suo ultimo film, “il Postino”.

Pollara

A Lingua, il centro abitato più popoloso, è d’obbligo il “pane cunzato” da Alfredo, una base di pane condito con prodotti tipici e locali come il condimento eoliano e dove è assolutamente consigliata anche la consumazione di una granita di mandorle di eccellenza. Malfa, l’altro villaggio a picco sul mare, completamente circondata da vegetazioni di lentisco, mirto e capperi, diviene la vostra meta ideale se siete alla ricerca di tranquillità, buon pesce fresco e caldo sole siciliano.

Non penso ci sia una parola per descrivere esattamente le isole Eolie. Queste isole vulcaniche sono entrate a far parte del patrimonio mondiale dell’Umanità Unesco, dove acqua, sale, terra e fuoco si combinano in diversi mix perfetti. Vi ho convinti, quindi?

Michele

8 curiosità su 8 piante

Piante

Quelle 8 informazioni basilari senza le quali vivi ugualmente, ma che ora ti interesserà conoscere

Conoscete la Pawlonia? E’ un genere di piante originarie della Cina e introdotte in Europa nel XIX secolo. L’albero di Paulonia ha una serie di pregi interessanti: è particolarmente resistente, non soffre il gelo, ha un legno 40% più leggero degli altri, una fioritura lilla abbondante, decorativa e molto amata dalle api, una crescita fulminea ed è molto apprezzata ultimamente anche per la produzione di biomassa. Una curiosità? In Giappone la Paulownia è anche conosciuta come “l’albero della principessa”. Un tempo era tradizione piantarla quando nasceva una bambina. L’albero, a crescita rapida, sarebbe maturato insieme alla ragazza, e quando avrebbe raggiunto l’età del matrimonio veniva tagliato e trasformato in articoli di legno per la sua dote.

Pawlonia tomentosa

Lo mangiate ovunque: guacamole, in insalata, nello smoothie, con le uova strapazzate, frullato, con del formaggio. Ma da dove deriva la parola “avocado“? Nella lingua Nahuatl parlata dagli Aztechi, la parola «ahuacatl», da cui deriva «avocado», significa «testicolo». Si, esattamente.

Ovviamente la curiosità su questo frutto non è la sua etimologia, quanto le sue caratteristiche: l’avocado infatti ha un enzima che ne sfavorisce la maturazione; può rimanere attaccato all’albero anche per 7 mesi senza essere raccolto. Ecco spiegato il motivo per il quale è un frutto disponibile praticamente tutto l’anno.

Avocado

L‘ortensia è da sempre considerata una pianta ambigua. La storia vuole che venne portata per la prima volta dall’Oriente all’Europa dal naturalista francese Philibert Commerson, che la chiamò così in onore di Hortense Barrè, di cui era innamorato. La fanciulla era però la figlia di un amico dell’esploratore e non poté ricambiare il sentimento. O forse sì, ma solo in segreto e per un momento fugace. Il significato del fiore è dunque molto controverso e racchiude i due risvolti di quella storia: alcuni sostengono che rappresenti il distacco e il sentimento non corrisposto; per altri è una dichiarazione d’amore.

Sapevate che l’ortensia può cambiare il colore dei suoi fiori in base al pH del suolo? Armatevi di elettrodi e misuratore di pH del terreno e se vorrete un’ortensia blu, basterà avere un terreno con pH pari a 5,5 o inferiore. Un pH 6,5 o superiore farà produrre delle ortensie rosa mentre, tra 5,5 e 6,5, avrete fiori dalle sfumature bianche e viola. Modificare l’acidità di un terreno non è un’impresa titanica: uno dei metodi per abbassare il pH del terreno in modo graduale è quello della somministrazione protratta nel tempo di letame e materia organica, ma anche la pacciamatura con foglie secche di quercia o abete può aiutare.

Hydrangea – Ortensia

Anthirrinum Majus, comunemente detta Bocca di Leone. Cosa conoscete di questa pianta dai sgargianti fiori?

In epoca medioevale la tradizione voleva che le ragazze mettessero tra i loro capelli alcune bocche di leone nel caso volessero rifiutare i corteggiatori sgraditi, in modo da rendere pubblico il loro rifiuto. Al giorno d’oggi i piccoli e alle volte sgargianti fiori vengono utilizzati in campo industriale, poiché da essi è possibile estrarne il colore. Nel linguaggio dei fiori e delle piante, per via dell’uso che ne facevano le ragazze, la bocca di leone simboleggia il disinteresse e l’indifferenza e, in tutte le tradizioni culturali, è stato da sempre considerato il fiore emblema del capriccio. Ma c’è una particolarità: lasciando appassire i fiori, i semi che ne derivano assomigliano a dei piccoli teschi. E’ impressionante come la natura a volte riesca a stupire anche con l’orrido.

La Jabuticaba è una pianta brasiliana. Sviluppa i suoi frutti in piena primavera (a Novembre, quindi). Dal sapore molto dolce (alcuni dicono ricordi il sapore dell’uva), il suo frutto matura molto velocemente, tanto da considerarsi molto pregiato e raro da trovare sulle tavole, ma impiegato molto nella medicina omeopatica per risolvere problemi respiratori e di digestione.

La sua caratteristica principale che la porta ad essere menzionata qui è che sviluppa i suoi frutti direttamente sui tronchi.

Jabuticaba

Si chiama Rafflesia Tuan-Mudae, è rosso, ed è il fiore più grande al mondo. Ma regalarlo ad una persona alla quale volete bene significa augurarle anche di restare con una maschera anti-gas per diverse ore.

117 centimetri di diametro e circa 30 kg di peso hanno fatto entrare a gamba tesa questo fiore sbocciato tra i tronchi di altre piante della foresta pluviale indonesiana nel guinness dei primati, ma pare che la Rafflesia non abbia gradito molto l’illustre titolo ricevuto. Immaginatelo come una grande calla, con enormi petali carnosi rosa salmone ricoperti da macchie simili a bolle e, soprattutto, con un odore pestilenziale che ricorda quello della carne in decomposizione. Il terribile odore serve ad attirare le mosche che lo impollinano e ovviamente gradiscono questo fetore.

Quindi, pensateci bene prima di regalarlo, a meno che la vostra ambizione non sia quella di tornare single.

Rafflesia

Vi siete mai chiesti perchè solo la Mimosa sia considerata come il fiore perfetto per l’8 Marzo, il giorno della Festa della Donna? Per una ragione puramente economica, ma non solo. Il fiore dell’acacia dealbata è uno dei primi a sbocciare dopo l’inverno, ed è recidibile solo nel giro di pochi giorni e in grande quantità: questo ne determina un prezzo molto basso sul mercato. Un’altra ragione, puramente cromatica, deriva dal fatto che il giallo è un colore molto sgargiante che simboleggia la rinascita dopo un lungo periodo di grigiore come l’inverno. L’analogia con la condizione femminile è presto fatta.

Acacia dealbata – Mimosa

Per ultimo, ma non per importanza, il baobab. Soprannominato da molti “albero della vita” per la sua longevità (alcuni esemplari attualmente esistenti raggiungono circa i 1300 anni di età), rientra così tanto nell’immaginario collettivo da meritare menzioni e posti d’onore nella letteratura e nella cinematografia più conosciuta. Basti pensare a “Il Piccolo Principe” o “Il re Leone”, per associare subito una immagine di questa pianta ad un pensiero nella nostra mente.

Baobab

Impossibile delineare con precisione l’età di questi monumenti naturali se non con la datazione al carbonio, poiché non si sviluppano anelli concentrici nei loro tronchi. Il suo fiore è notturno e dalla durata di una sola notte. Il frutto ha un guscio vellutato e ha le dimensioni di una noce di cocco, del peso di circa 1,5 chilogrammi e dal gusto simile ad un incrocio di pompelmo, pera e vaniglia. Contiene il 50% in più di calcio rispetto agli spinaci, antiossidanti e tre volte la vitamina C di un’arancia. In pratica, è un elisir di giovinezza a pronto consumo.

Alcuni degli alberi più robusti, erano utilizzati in maniera efficace come rifugi antiaerei durante le ultime guerre. Basti pensare che nei tronchi più grandi riescono ad entrare comodamente fino a 50 persone.

Sono molto efficaci come mezzo di raccolta di importanti quantità di acqua piovana: i tronchi a volte raccolgono fino a 32.000 litri d’acqua. Questa è senza dubbio una caratteristica ambientale molto utile per le persone e gli animali nella zona, durante la stagione secca.

Ultima e amara curiosità? I recenti cambiamenti climatici stanno determinando un repentino cambiamento della crescita di queste secolari attrazioni viventi tanto preoccupante da destare attenzione e classificarle come pianta in pericolo di estinzione.

Baobab Trees

Dark

Serie Tv

Riusciremo a capirne qualcosa? Proviamoci!

Avete mai sentito parlare del “paradosso di Bootstrap”? E’ il nome dato alla curva causale o di casualità, quella che molti definiscono “curva chiusa”. E’ su questo principio che si basa Dark: un ipotetico viaggio per il quale, nonostante un viaggiatore temporale sia coinvolto in una catena di eventi, la storia futura non si modifica a causa dell’esistenza di una predestinazione.
Partiamo subito col dire che Dark è in assoluto una delle serie più sorprendenti e innovative prodotte negli ultimi anni. Questa serie teutonica in tre stagioni riprodotta da Netflix a partire dal 2017, la cui trama è particolarmente intrigante è costruita alla perfezione in ogni suo dettaglio. In un lasso di tempo di 160 anni e l’analisi di più mondi paralleli e confinanti, niente è lasciato al caso ma studiato in ogni sua sfaccettatura ponendo molta attenzione alla congruenza degli avvenimenti passati presenti e futuri.
È in questo contesto che molti hanno paragonato questa narrazione a quella di noi orfani di Lost.
La sceneggiatura è praticamente perfetta, con un lavoro magistrale sulla costruzione dei
personaggi, sulla loro introspezione e sull’analisi psicologica di ogni singolo avvenimento che si è
verificato nel passato ripercuotendosi nel presente di ogni singolo membro di una famiglia.
A livello fotografico, il sapiente utilizzo di colori freddi sin dalle prime scene ci proietta subito in un
paesaggio nordico, di provincia. Capiamo perfettamente di essere in una Germania in piena
crescita economica dove una centrale nucleare la fa da padrona.
I chiari elementi cromatici come l’impermeabile giallo di Jonas, evidente riferimento a IT, film
culto degli anni 90, ci aiutano nella collocazione temporale desiderata dagli autori e la fitta nebbia
come fosse una rappresentazione onirica, aiutano a comprendere i salti temporali a cui lo spettatore sta assistendo.

La trama è particolarmente complessa, ma per capirne qualcosa in più, occorre partire dall’accettare l’idea che per Baran bo Odar e Jantje Friese (i suoi ideatori) il tempo sia un concetto
circolare che prima e poi ritorna, e mai lineare.
Proprio per questo, quando si parla di questa serie, l’associazione con il pensiero di Nietzsche che
qualcuno ha azzardato non è fuori luogo: “tutto quello che accade è contenuto sia nel passato che
nel futuro, tutto accade come deve accadere e come è già accaduto”.
Vuoi per il fatto che il tema trattato, cioè i paradossi generati dai viaggi nel tempo sono di per sé solitamente complessi da capire e vuoi per il fatto che è difficile identificare i singoli personaggi nei diversi piani temporali, solo una seconda visione e un albero
genealogico di ogni singola famiglia dal cognome impronunciabile può aiutare la comprensione di
questa storia. I personaggi messi in campo sono veramente tanti perché in realtà non c’è un
unico protagonista in questa serie.
Per questo, qui di seguito, eccoli riportati.


Si passa repentinamente dal raccontare le vicende accadute nel 2019 per passare poi da quelle del
1986 fino ad arrivare al 1953 è difficile farsi un quadro completo di tutti i  protagonisti e dei
legami che li uniscono nonostante la regia ci venga in aiuto mostrando ogni tanto i cambiamenti dei volti dei protagonisti nelle tre linee temporali.
Dark è dunque una serie più adatta a chi ama imprecare davanti allo schermo e pensare “ma
perché lo sto guardando? Non potevo scegliere una roba più leggera?”.
Oltre ad affrontare in maniera davvero originale il tema dei viaggi nel tempo e trattare in maniera semplicistica argomenti di astrofisica come i buchi neri e i wormhole, Dark tocca temi più filosofici (ecco l’analogia con Nietzsche di cui si parlava precedentemente) determinismo e l’eterno dualismo tra scienza e religione, unico e solo vero filo conduttore di questo tempo della storia della durata di un secolo e mezzo.
Ogni puntata di Dark si chiude solitamente. come è ormai consuetudine nelle serie moderne, con un potente cliffhanger, di quelli che ti fanno venire voglia di vedere immediatamente la puntata successiva.
Questo equilibrio complessivo, solido, convincente, è sicuramente determinato anche dalla scelta
di descrivere la storia di Jonas e Martha in un tempo del racconto di sole tre stagioni.

Come allevare un drago in casa

Piante

Nulla nasce dal nulla, nemmeno le leggende.

Non sono esenti da questo i racconti sulla origine di alcune piante: alcune di queste storie descrivono vicissitudini così fantasiose ma così ricche di dettagli, che vale la pena raccontarle anche ai nostri giorni.

Un tempo, come tutti sanno, le montagne erano popolate da draghi. Si dice fossero tra le creature più sagge, ma anche più avare: bramavano principesse e tesori portando via con loro tutto quanto una volta conquistate, in spazi e tempi lontani. Le dragonesse, rimaste sulla Terra, quasi certamente non distrutte dal dolore, si rifugiarono nell’arcipelago delle Isole Canarie e lì vi restarono finché non subirono l’incursione da parte di guerrieri e cavalieri che, per la prima volta, decisero di spingersi oltre le già note Colonne d’Ercole.

Stizzite, infuriate e gelose del loro territorio, cercarono di lasciare queste terre invano. Plinio il Vecchio, uno degli incursori di queste isole, assistette alla trasformazione delle dragonesse. Come in un contrappasso dantesco, la loro voglia di spiccare il volo era tanto grande quanto anche il loro peso, aumentato per pigrizia e buona cucina mediterranea, così da rimanere piantate a terra in modo così saldo che le squame delle loro zampe divennero radici: nacque così la DRACENA DRACO.

Al di là di quanto possa essere o meno veritiera questa leggenda, le popolazioni indigene delle isole Canarie hanno attribuito a questa pianta una valenza magica. In parte per le forme insolite che assume, ma soprattutto perché quando il tronco viene inciso, la resina che ne fuoriesce è di un colore rosso vermiglio molto intenso, quasi come fosse sangue.

A livello medicinale questa resina è ricchissima di proprietà: cicatrizzante, antiasmatico e disinfettante. Per questo è ampiamente impiegata nella medicina di pronto intervento in America Latina e in Africa.

A livello esoterico, secondo la magia, esistono fondamentalmente dodici modi per utilizzare il cosiddetto “Sangue di Drago”, tra cui aumentare la passione, far tornare un amore, per esorcismo, fertilità.
La resina liquida viene anche impiegata nei bagni, sia bagni d’amore che bagni di purificazione.
Versata sulle fotografie insieme ad erbe o polveri d’amore da sempre viene impiegata nella magia amatoria. Il sangue di drago rientra altresì nella preparazione degli inchiostri magici impiegati per siglare patti e legamenti.Si, capirei se mi diceste che è nata in voi la voglia di avere un drago in casa e vi direi che questa pianta, sebbene abbia conservato la caratteristica principale delle sue origini, la pigrizia delle dragonesse, divenendo estremamente lenta nella crescita, è molto versatile; si adatta molto bene ad ambienti interni purché ben arieggiati e luminosi, o ad ambienti esterni la cui temperatura però non arrivi mai al di sotto dello zero.

Io ho appena piantato un drago in veranda, voi?

This Is Us

Serie Tv

Le promesse che This is Us ha fatto al suo pubblico fin da quando la NBC ha diramato nel lontano 2017 uno dei trailer televisivi più cliccati di sempre sono state tutte mantenute. Almeno per me.

La storia si compone di narrazioni diverse aventi un unico filo conduttore: la famiglia. La stessa famiglia, in diversi momenti.

La serie in effetti si apre con la descrizione dei personaggi, molto diversi tra loro e geolocalizzati in diverse parti degli Stati Uniti, ma con un elemento in comune: festeggiano nello stesso giorno il loro trentaseiesimo compleanno. Sono fratelli, gemelli dunque, ma molto diversi tra loro. Inizia così una serie di flashback narrativi che andranno a raccontare le vicende dei Pearson: l’infanzia dei ragazzi si alterna alla loro vita adulta e cosi anche alla vita dei genitori, Jack e Bec, creando un ritmo di visione fluido, ma incisivo. Questo fa di questa serie TV l’elemento forza: ogni personaggio viene psicologicamente sviscerato e analizzato, senza essere rindondante e noioso, ma lasciando che ogni Pearson diventi un membro della tua famiglia.

Figura cardine di questo telefilm è Jack: questo uomo incarna perfettamente la figura di protagonista.

Ha l’incredibile pregio di essere completamente devoto alla sua famiglia pur non avendone mai avuto un concreto esempio. Questa “ansia da prestazione” ne farà emergere anche difetti, e non pochi, ma soprattutto limiti.

La struttura di questa serie potrei paragonarla ad un’opera di Andy Warhol: ogni episodio è una storia in sè che si sviluppa in minuti e si esaurisce in un quella puntata rimanendo completamente vincolata alla trama principale e lasciando che la storia cardine, senza quel determinato episodio, ne risulti priva di significato.

La potenza di “This is Us” è il sublime lavoro di Dan Fogelman: una sceneggiatura semplice, che deve lasciare necessariamente spazio a dialoghi magistralmente scritti e interpretati. Uno tra tutti, quello tra Jack e il Dr. Nathan Katowsky nel pilot: “Adoro pensare che un giorno tu sarai un vecchio come me e aiuterai un uomo più giovane tentando di spiegargli come tu abbia colto il limone più aspro che la vita possa offrirti e ne abbia fatto qualcosa di simile a una limonata“.

19 Marzo.

Idee

A tutti quegli uomini che sono papà perchè si occupano dei propri figli,
a tutti quegli uomini che sono papà perchè si occupano dei propri figli e non perchè li han generati,
a chi papà avrebbe voluto esserlo, e a chi avrebbe potuto ma non ha voluto;
a chi è papà a metà,

a chi condivide suo figlio con un altro papà, magari più presente,
a chi ha creduto di essere un buon papà, ma nessuno gli ha creduto,
a chi avrebbe potuto essere un buon papà, ma le istituzioni glielo han negato,
al papà che non c’è più, perchè il suo insegnamento vale più di un ricordo,
a quel papà lontano, che il figlio odia per averlo abbandonato,
a quel papà vicino, che il figlio vorrebbe fosse un po’ più lontano,
anche a quel papà che papà non è, ma sfrutta l’amore dai suoi figli per suoi sporchi piacimenti.

A quel papà senza barba e baffi, e magari con curve sinuose, che molti non riconoscono come papà, ma che lo è più di tanti altri.

Auguri al mio, il migliore papà che potessi pretendere.

Alle 17 volte in cui c’è scritto “papà” in questo post, e alle innumerevoli possibilità di essere, un buon papà.